II: E piombo tutto il resto, Gloria Ghioni

L’avrebbe trovato qua. Almeno così le avevano detto. Ma ora che varca la soglia dell’osteria, non è più convinta di riconoscerlo. Sente sotto i piedi lo scricchiolio delle sue incertezze, e a poco serve pensare che sono solo i sassi portati dal carrarmato di altre scarpe. Forse anche dalle sue. Se avesse potuto abbreviare i tempi, rivedere la sua zazzera di capelli neri, affondare una mano in quei ricci e smettere di tremare, si sarebbe evitata una tachicardia folle, aritmica. Le avevano raccomandato di evitare emozioni troppo forti, se è per questo. Eppure lei non ce l’aveva fatta, era bastata una parola – che non era una parola, ma solo una speranza – per precipitarsi alle colline, giù dalla sua montagna, risalire lì dove a qualcuno, in una notte di nebbia, era parso di vedere la camminata un poco sghemba e il mento sfuggente di Adriano. E quindi eccola, si è già seduta al tavolo e non fa che aspettare l’oste, che, poco lontano, ansima per una pancia molle e lenta. Quando si avvicina, le allunga un foglio sudicio di altre dita, perché scelga quale cibo e quale vino ordinare. Ma la donna ha freddo, sente l’umidità della pioggia recente appiccicarsi oltre la sua pelle, nelle ossa, e sa che solo l’abbraccio di Adriano, il suo buon odore di casa potrebbero riportarla in vita. Invece, non dice niente di tutto questo, prenota a caso un rosso tipico d’Oltrepò, e aspetta con ansia che arrivi la cena. Intorno, gli avventori non prestano più attenzione a lei: è una vecchia qualunque, che zoppica e s’attarda per mettere a fuoco i visi. Nessuno sa che le sue orecchie non sono sporcate dalle bestemmie e dagli accidenti gridati nel locale: le sue orecchie aspettano una voce conosciuta, la stessa che ha visto mutare dai suoni striduli di neonato al ventenne col suo timbro roco. Quella voce, saprà ancora distinguerla? E allora continua a cercare con gli occhi tardi, perché sa che di sotto alle rughe potrà farcela, sì, un viso si rivelerà più noto degli altri; per i lineamenti dagli zigomi impietosi, duri, allontanerà dall’anonimato un uomo. E saprà, di colpo, di averlo ritrovato. Senza poesia, l’oste le abbandona davanti un piatto di minestra, dopo aver sbattuto la brocca sul tavolo. La vecchia affonda il cucchiaio in quel brodo cerchiato di grasso, fatica a trovare la forza per berne un sorso, e intanto controlla se attorno la guardino. Nessuno. Tre abituali si scrocchiano le nocche prima di ricominciare una briscola, forse l’ultima della sera; un bambino annoiato ciondola le gambe giù dalla sedia troppo alta; una donna osserva di sottecchi quanto le gravidanze l’abbiano sformata, e intanto culla una carrozzina in penombra. Lei vorrebbe avere la spensierata incoscienza degli scommettitori, il tutto da fare del bambino, il sentimento recente dell’addome sgravato dei nove mesi: tutte fortune che gli altri non comprendono. Ci sono i clienti di spalle, ancora da guardare: la vecchia immagina che Adriano sia uno di loro, che sollevi anche lui il cucchiaio con la stessa malavoglia, e si sfami per inerzia, prima della notte. Se davvero fosse uno di quelli? Cosa potrebbe dirgli? Ci vuole un goccio di rosso, la vecchia ne beve d’un fiato, e lascia che l’ultimo rivolo le bagni il mento. Si sente strana, perché quel vino non l’ha mai bevuto; e non le piace neanche, il vino. Adriano ne beveva sempre, invece, con suo padre, ne dividevano almeno una bottiglia a pasto, e commentavano che solo il vino d’Oltrepò poteva soddisfarli, perché lì in montagna niente bagnava bene le labbra. La vecchia lo sapeva che Adriano pensava all’Oltrepò come all’unico posto dove avrebbe potuto trovare la terra che voleva, prendersi cura di vere vigne, non come quei tronchi secchi piantati tra i sassi. E, quando sognava, parlava di questa terra poco sopra la pianura, delle prime alture, dell’aria diversa, più rarefatta e pura, e di tutti quei filari. Non aveva mai amato, come i suoi coetanei, mete esotiche e bellezze straniere: volevache le mani gli prudessero per i pampini, e che le foglie delle sue viti abbracciassero solo le tempie della Nina. Nient’altro. Un uomo si avvicina alla vecchia: tiene tra le mani un fardello chiuso, si intravede una chiave; la donna scruta oltre quella camicia a quadri. No, non ha gli occhi color pervinca di Adriano, né la sua finta indifferenza verso il mondo. Sta già per distogliere lo sguardo e tornare alla minestra, quando quell’uomo si ferma: è più vecchio di Adriano, non può essere lui. Però sembra indeciso sul da farsi, oscilla un attimo sui piedi infangati e si rivolge alla vecchia:
«Signora, ha bisogno di un passaggio? È mezzanotte passata, qui tra un po’ chiudono e sta scendendo la nebbia». «Mezzanotte?... La nebbia?» è come se la sua voce roca parlasse per la prima volta. Come se non avesse ordinato. O forse è così, e prima aveva indicato un paio di voci sulla lista, senza neanche salutare?
«Non creda che non ci sia anche qui, la nebbia. Se vuole, fumo qui fuori e poi scendo in paese. Dove sta?» ripete l’altro. «No, grazie. Resto qui. Sto aspettando... mio figlio» fa la vecchia, e le sembra che quello sconosciuto frughi nei suoi occhi. Sono lo stesso pervinca di quelli di Adriano, è vero, adesso si chiede se quell’uomo non l’avesse interpellata per la somiglianza con suo figlio. Forse lo conosce? È un suo collega, amico, conoscente? Potrebbe indicarle la via, aiutarla a non perdersi in quel bagno di latte che sta colando sui filari come sui suoi ottantasei anni. Fa per alzarsi, ma subito decide di risparmiare le energie: quell’uomo se n’è già andato scrollando la testa, ha lanciato il filtro della sigaretta a bruciare rosso vicino all’entrata, e sta mettendo in moto: lei sa che non farebbe mai in tempo a raggiungerlo.
Le briciole del pane, sulla tovaglia, sembrano essersi moltiplicate: la vecchia prova a contarle, poi si stufa, con meticolosità le accatasta e le spiana con il coltello pulito, di taglio; ne approfitta per occhieggiare sopra il bicchiere, oltre il bancone, oltre le macchinette da gioco, oltre il biliardo. C’è un uomo, siede coi gomiti larghi, a un tavolo piccolo, forse più sporco del suo, la stessa tovaglia a scacchi bianchi e rossi, le stesse posate curvate, la stessa brocca semivuota, e sta guardando nella sua direzione. Forse sessant’anni, l’età di Adriano; la piega stretta delle labbra di chi è stato rifiutato da un amore, come Adriano dalla Nina; la camicia unta e macchiata, come Adriano quando si infilava sotto ai trattori e si fingeva meccanico. Ma gli occhi? Gli occhi non si vedono e, per quanto la donna stringa le palpebre, le diottrie non migliorano. Deve aspettare che sia lui a riconoscerla, a fare il primo passo, se vuole riabbracciarla dopo quarant’anni buoni. Se non fosse lui? È strano, prima d’ora la vecchia era sempre stata prudente, ma stavolta è partita senza neanche prenotare una stanza, perché sentiva che avrebbe dormito nella casa di suo figlio, forse sul divano dove lui sbriciola i biscotti, la sera. Ma con lui.
È l’oste a interrompere quel silenzio irto di pensieri cupi, scuotendo davanti agli occhi della donna una brocca piena. L’appoggia sul tavolo, e il vino ondeggia in ellissi sempre più quiete, tanto dense da intravvedersi appena dietro. «Il signore laggiù le manda questo vino in regalo» dice.
La vecchia scatta con lo sguardo in fondo all’osteria: la sedia ha brontolato sul pavimento colloso, l’uomo cammina verso il tavolo, alzando il bicchiere di rosso. Il passo è sghembo; gli occhi, pervinca.