III ex aequo: Il maestro unico, Maria Natalia Iiriti

Fece il viaggio in treno guadagnando un posto accanto al finestrino. Era un ottobre caldo e il mare schioccava riflessi che parevano sorridere. Una bella giornata lo accompagnava lungo quel lungo viaggio,dalla Calabria al Piemonte, dal confino a casa. Accanto a lui uno zingarello appoggiato sul seno della giovane madre gli sorrideva. Aveva un maglioncino rosa, dello stesso colore delle scarpe. Avrebbe giurato che fosse un maschietto, malgrado il colore che indossava. Abbronzato dalla prima estate della sua vita, gli occhi color bronzo che si posavano sul mare. Mentre distoglieva gli occhi dal libro che teneva aperto fra le mani, il bambino lo studiava con interesse e curiosità.Lui ricambiava l’attenzione con rapidi sguardi dolci accompagnati da tiepidi sorrisi. E pensare che quel viaggio verso casa lo avrebbe ricordato a lungo, accarezzandone i contorni anche quando si erano fatti sbiaditi, come faceva adess,o con le dita sui contorni del libro. Si chiedeva se quella giornata, quel viaggio sarebbe rimasto nella mente del bambino col maglioncino rosa. Sarebbe entrato lui stesso nella sua memoria? Questo si chiedeva. E intanto leggeva, come sempre aveva fatto in quei mesi di “villeggiatura”. E guardava il mare, ogni tanto. Per l’ultima volta. Il mare che lo accoglieva ogni volta che usciva dal suo carcere dalla porta aperta.
Un anno appena, un anno di purgatorio fra gente che lo aveva accolto e trattato bene.
Aveva scritto molto e guadagnato salute dai bagni di mare e di sabbia.
Di quel lungo viaggio solo questo tenne a mente: i diamanti d’acqua adagiati sul mare, il maglioncino rosa e gli occhi di bronzo dello zingarello. Lassù sapevano che sarebbe tornato. Lo aspettavano in molti, rifiatando il silenzio che era seguito alla notizia. 
Arrivò a casa e c’era profumo di mosto.
Laggiù gli amici jonici non lo avevano dimenticato.
Ora che era finita la guerra sarebbe stato più facile incontrarsi. Del resto Torino era pieno di calabresi e molti venivano proprio da lì.
Passarono i mesi lenti e crudeli dell’inverno.
Il vento sbottonava i petali dei ciliegi che quell’inverno avevano stentato a fiorire.
Allora si formava una nuvola di neve che andava a finire tra le mani ed i capelli lunghi delle bambine. A colpo d’occhio si contavano le foglioline nuove sugli alberi e il trifoglio nei prati dove si rotolavano i primi scampoli di primavera.
Gliel’avevano scritto che il Primo maggio del secondo dopoguerra sarebbe stato memorabile.
Da Brancaleone calabro, nel punto in cui la strada prosegue per il borgo di Staiti, parte un corteo che man mano s’ingrossa e invade i sentieri di campagna riscaldati dal sole di maggio per raggiungere l’estesa pianura piena di ulivi in contrada Razzà.La fine del conflitto compiva un anno e i compagni avevano organizzato la manifestazione dei lavoratori e delle lavoratrici.
La festa del Primo maggio era per molti giovanissimi la prima. Si agitavano le bandiere, giganteschi papaveri al venticello di maggio in un campo in movimento, i piedi veloci non facevano rumore perché i ragazzi degli anni Venti avevano conosciuto prima la guerra delle scarpe.
“Noi non vogliamo la guerra per uccidere dei fratelli, non siamo dei ribelli ma siam la vera umanità […] Nel mondo noi vogliamo pace lavoro e libertà la guerra non si fa”.
Era questo il canto della gioventù, la “balda schiera” di Eugenio Curiel.
La pianura di Razzà accoglieva tutti, grandi, piccoli, uomini e donne. Tutti avevano voglia di ballare al suono di organetti e tamburelli. Sull’aria delle ciaramelle che riportava alle origini greche s’intonava l’Internazionale. I lavoratori volevano riprendersi la propria festa impegnando le mani,almeno per una giornata,  in altre attività, diverse dallo zappare, spaccare pietre, cucire, cucinare. I bambini al seguito dei genitori trattenevano il fiato di fronte alle altalene che sembravano altissime, appese ai rami d’ulivo che arrivavano al cielo. “Pendula o maritu?”, “continui o ti fermi?” chiedevano gli adulti che si alternavano a far divertire i più piccoli.
La lettera raccontava che c’era pure una giovane ragazza a quel primo Primo Maggio dei lavoratori del paese del suo confino, una ragazza di quattordici anni al suo primo comizio. La lettera riferiva anche il nome della ragazza: si  chiamava Chicca che al corteo del Primo Maggio aveva conosciuto Sara, la figlia di una vittima dei fascisti. Le due ragazze si erano prese a braccetto e si erano messe a camminare.
Il referendum bussava alle porte e si respirava l’ansia che precede l’ignoto, un palese desiderio di nuovo.
Brancaleone Calabro rimaneva un paese vivace dove il regime aveva inviato confinati di ogni tipo ed estrazione. Molti ricordavano lui, il piemontese magro che misurava la spiaggia con le sue passeggiate mattutine.
La lettera del corteo del Primo Maggio era arrivata che faceva caldo: lui l’aveva letta e  l’aveva messa in tasca. Poi era andato a camminare su tra i vigneti.Era passato un mese: anche in quei paesi sonnolenti cotti dal sole aveva vinto la Repubblica.
E lui, il piemontese magro, non lo avevano dimenticato i Greci di Calabra e l’ospitalità era stata benevola e si propagava dilatandosi attraverso tutte le regioni d’Italia. Adesso c’era la scuola nel paese. Una scuola vera, una scuola per tutti. Ma se la ricordavano ancora la sua scuola che snidava la sonnolenza dei ragazzi che ciondolavano nelle strade aggredite dal caldo feroce del Sud. Non c’era riparo se non nell’acqua di mare. Lo scrittore si era accorto che moti ragazzi bighellonavano Una scuola e lui, il confinato nordico, maestro unico di ignari ragazzi.  Una sala dell’albergo della signora Andreana, affittata e pagata di tasca d’u cunfinatu, accolse una ventina di ragazzi senza scarpe  e senza sogni. Per dieci giorni gli scalzi gustarono il sapore straniero sapore della lingua italiana, il conforto della storia, il piacere di parlare e venire ascoltati.
Non c’erano bambine nella scuola di Pavese e nessuno seppe mai se fosse un caso oppure una necessità. L’idea della scuola piaceva ai ragazzi che scoprivano nel professore piemontese un maestro serio e presente. Pavese era maestro unico di ragazzi del popolo, formazione in autogestione, progetto accoglienza e intercultura, u cunfinatu incarnava una passione.
In un paese in cui studiavano solo i figli dei benestanti anche le famiglie erano contente.L’idea piacque poco ai gerarchi fascisti che non videro di buon occhio gli sforzi didattici di un pericoloso confinato. Dopo due settimane la scuola venne chiusa: archiviate nell’armadio della memoria le lezioni di grammatica, poesia, aritmetica. Pavese era maestro unico di ragazzi del popolo, formazione in autogestione, progetto accoglienza e intercultura, u cunfinatu incarnava una passione.
Nino non ricorda più la poesia risorgimentale che Pavese gli aveva insegnato. Mancava solo questa tessera a raccontare il mosaico della sua vita. La ragazza lo tormenta da anni e una volta che andò a trovarlo Nino le confessò davanti ai cruciverba appena iniziati e ai farmaci giornalieri : “Mi sono ricordato il titolo della poesia, ma non ho fatto in tempo a telefonarti: l’avevo già dimenticato”.
Da quel giorno la ragazza non gli chiede più niente ma spera che Nino ricordi.
La Storia continua a regalare profumo di mosto. Si è smarrito il profumo delle gelsominaie che stordivano i confinati seduti al bar Roma.
Chicca ha sposato Nino. Non ha più rivisto Sara da quel primo maggio 1946. Ne sarebbero passati sessanta da quel giorno. Si sarebbero incontrate grazie a un articolo sul giornale che si era trasformato in annuncio. Sara apre il giornale e legge la sua storia. Cerca, chiede: è stata tanto tempo fuori e con le ragnatele della parentela ha perso la mano. Una sera squilla il telefono a casa di Chicca: “Sono Sara, la figlia di, la sorella di, la moglie di, la cugina di. Come stai Chicca? Quanto tempo è passato?”. Chicca fa fatica a ricordare. Ad un tratto si materializzano le bandiere sulla piana di Razzà, il rosso acceso si agita al vento e il giallo estivo delle ginestre in fiore. Le sapevano cardare le ginestre le donne del Sud e creare una tela dal fiore, per tessere lenzuola, coperte, tappeti. D’improvviso le torna in mente quella ragazza vestita di nero.
Le ragazze di ieri s’incontrano e quel giorno c’è anche la ragazza che osserva la Storia e scatta fotografie. E guarda Nino e spera che  ricordi almeno il titolo della poesia insegnata dal poeta confinato e maestro unico.