III ex aequo: La sera della festa, Patrizia Bartoli






Si svegliò prima delle sei con la gradevole sensazione che tutto sarebbe andato liscio fino a sera. La mattina sembrava già molto calda, proprio come piaceva a lui. Attese nel letto l’arrivo del lattaio e quando udì il motore del camioncino perdersi in fondo alla strada, scese  alla porta. 
La bottiglia non era perfettamente allineata sulla fila delle mattonelle rosse che delimitava la soglia, ma non si inquietò. Sapeva che Tommy – così lo chiamavano in paese - era poco più che un ragazzo, svagato come tutti quelli della sua età; d’altronde il vecchio Gino era ancora ricoverato in ospedale e non c’era niente da fare.
Prese la bottiglia, la rigirò con precauzione tra le mani, controllò che il coperchio a vite fosse perfettamente chiuso e lesse la data di scadenza stampigliata sul bordo. Poi, con una secca rotazione del polso destro l’aprì. Sospirò soddisfatto: amava bere il latte freddo direttamente al collo, a piedi nudi sul logoro pavimento che per anni, ogni sabato, sua madre aveva lucidato con cura ossessiva. La ricordava: in ginocchio, bellissima con i capelli che le incorniciavano il viso, strusciava un mattone alla volta, chiusa nella sua sofferenza.                      
Cercò di scacciare quell’immagine che lo rendeva inquieto bevendo con avidità dalla bottiglia. Una sorsata lunga. Come sempre, il latte lo calmò nutrendo ogni cellula del suo corpo e della sua mente. Ne aveva scoperto la forza molti anni prima, in riformatorio, dopo che la sua rabbia di adolescente lo aveva portato sull’orlo dell’abisso. Il latte lo aveva salvato. Da allora, lo beveva ogni mattina presto, prima che il giorno iniziasse e si sentiva buono. Ma non ne andava sprecata neppure una goccia.
Leccò due volte il bordo della bottiglia, la richiuse con attenzione e stringendola al petto come se fosse una creatura, attraversò lo stretto corridoio fino alla cucina. Qui accese la luce e appoggiò la bottiglia al centro del tavolo, nel tondo ricamato di una tovaglia immacolata. Finalmente non più impacciato nei movimenti, aprì la finestra, guardò il cielo che splendeva come un segno di benedizione sopra di lui, spense la luce e andò in bagno. Era ancora molto presto, poco più delle sei, ma Pietro amava fare le cose con calma: una volta pronto, avrebbe raggiunto a piedi la tabaccheria del paese dove lavorava da quando era tornato.
Si rase con movimenti lenti e precisi indugiando con la lama sulla pelle più tenera del collo, poi sistemò le basette che portava lunghe e sottili. Si tolse con l’asciugamano i resti della schiuma da barba e dedicò tre minuti scanditi dall’orologio a muro alla pulizia dei denti. Nella sua testa, la voce della guardia ripeteva instancabilmente che la pulizia del corpo era lo specchio della pulizia dell’anima. Sotto la doccia intonò il motivetto che Rosa aveva cantato per lui alla festa del paese, tanti anni prima.
Quella sera, Rosa era straordinariamente bella. I capelli neri le scendevano sulle spalle coperte da un leggero golfino rosso e il viso, in cui sorridevano incredibili occhi azzurri, limpidi come quelli di un bambino, esprimeva un’attesa gioiosa. Non erano andati alla festa insieme, ma si erano incontrati lungo la scorciatoia che portava alla chiesa e quando lui aveva avuto l’ardire di prenderle la mano destra nella sua, lei non l’aveva ritirata. Mano nella mano, -  Pietro temeva che il suo cuore non avrebbe sopportato tanta felicità -  si erano mescolati agli altri.
Dieci anni prima.
All’improvviso, il volto di Rosa gli apparve al di là del vetro della doccia, il suo sguardo innocente ma indiscreto scorreva su e giù per il  suo corpo nudo che rispose con uno spasimo di eccitazione. No! Furioso con sé stesso, di nuovo un adolescente cattivo e sporco, si lavò con violenza sotto il getto dell’acqua gelida. Si asciugò rabbiosamente mentre il cuore gli scoppiava nel petto che s’alzava e s’abbassava in modo innaturale.
Ancora nudo, scese di corsa le scale, ma il dolore alla bocca dello stomaco era così forte che si dovette fermare, piegandosi in due sull’ultimo scalino di fronte alla porta d’ingresso. Fece brevi respiri per respingere la nausea, s’aggrappò con entrambe le mani alla ringhiera e barcollando raggiunse la cucina. La bottiglia di latte era lì, bianca dea dispensatrice di bontà. Avanzò con le braccia protese e il volto stravolto dalla rabbia che lo soffocava, ma le sue mani non smisero di tremare e la bottiglia cadde frantumandosi in mille pezzi, spargendo il prezioso liquido sul pavimento. Per un lungo momento, Pietro fissò sbalordito il latte che si spandeva fra i vetri, intorno ai suoi piedi, poi cominciò a tremare sempre più forte, mentre un urlo silenzioso gli squarciava la gola. Calpestò con furia i frammenti di vetro e il rosso del suo sangue si mescolò al bianco del latte. Non sentiva il dolore delle ferite ma aveva paura e si nascose sotto il tavolo cercandovi un riparo come fa una bestia nella sua tana.
Dopo  ore passate nel silenzio segnato soltanto dai suoni consueti di una pigra mattina di luglio che penetravano dalla finestra aperta, il telefono squillò. Pietro non si mosse, continuando a gemere sommessamente fino al sopraggiungere della sera accompagnata da una lieve brezza che increspava l’aria ancora calda. Quando le prime luci apparvero in cielo, strisciò sul pavimento di cucina verso il corridoio e su per le scale: in camera si gettò sul letto disfatto e finalmente s’addormentò di un sonno senza sogni.
Si svegliò più tardi nella notte per il dolore ai piedi feriti e vide che una chiazza di sangue sporcava il lenzuolo. Faticosamente raggiunse l’armadietto dei medicinali accanto allo specchio nel bagno e tornò nella sua stanza: con un paio di pinzette che erano appartenute alla madre tolse alcune grosse schegge di vetro, disinfettò le ferite e le fasciò strettamente. Esausto, s’avvolse tra le lenzuola rabbrividendo in preda alla febbre. S’assopì e si risvegliò più volte, prigioniero del torpore che ne aveva invaso il corpo e la mente.
Il primo chiarore dell’alba lo trovò addormentato, ma a poco a poco la luce che penetrava dalla finestra illuminò la stanza e Pietro aprì gli occhi. Riverso sulla schiena, vide intorno a sé le cose di sempre: il comò a quattro cassetti, l’armadio a un’anta, la sedia, il comodino. Il suo mondo era lì intatto e ordinato. Cominciò a contare le travi del soffitto – contare e mettere in fila le cose gli dava sicurezza - quando il ricordo di quello che aveva fatto lo colse a tradimento. Rivide il viso di Rosa al di là del vetro della doccia e comprese che non aveva più scampo; tuttavia gli affiorarono alle labbra le parole di tutte le preghiere che sua madre gli aveva insegnato da piccolo e con il cuore in tumulto le recitò una dopo l’altra.
In quella lontana sera della festa – era allora un adolescente inquieto e fragile – aveva fatto del male a Rosa. Senza volerlo, perché l’amava, ma era accaduto così come spesso capita per le cose della vita.
Era stato rinchiuso nel carcere minorile dove il ricordo della madre si era ridestato prepotente. L’avevano portata via una mattina che era a scuola e quando era rientrato per il pranzo ad attenderlo c’era la zia Irma. Allora era appena un ragazzino di dodici anni: aveva pianto per molti giorni incapace di capire perché la mamma non potesse far ritorno a casa, poi si era asciugato le lacrime e  aveva dimenticato.
In prigione,  ricordare gli anni della sua infanzia, prima felici poi tristi, era stato atroce; a lungo nelle estenuanti domeniche di visita aveva sperato di poterla riabbracciare, infine aveva compreso che non sarebbe più stato possibile. Ne aveva sofferto, ma in qualche modo ce l’aveva fatta e anche Rosa era tornata a sorridergli. Fino a ieri, quando era apparsa al di là dei vetri della doccia e lui, come allora, l’aveva spaventata. Poi aveva fatto cadere la bottiglia del latte e questo era il segno che tutto era perduto.
Il passato tornava. Avevano ritrovato Rosa due giorni più tardi nelle acque del lago, con gli occhi  spalancati nel viso tumefatto, il corpo ancora avvolto nel vestito bianco a fiori che indossava  per la festa e i piedi nudi. Il leggero golfino rosso le era stato strappato dalle spalle e giaceva sulla riva accanto alle scarpe.  Pietro aveva subito confessato e le sue erano state parole di liberazione.
Aveva trascorso quasi due anni nel carcere minorile e altri tre in una comunità, poi era tornato al paese.  Non tutti l’avevano accolto a braccia aperte, ma non se ne lamentava. Viveva da solo perché la zia si era sposata e abitava lontano. Trascorreva le sere d’inverno sfogliando le vecchie riviste di sua madre mentre nella bella stagione, specialmente nelle calde giornate estive, si spingeva sino al lago e vagabondava  per ore sulle sue rive. Ma adesso tutto questo era finito: Rosa era ricomparsa dalla profondità di quelle acque scure che ne avevano accolto il corpo e con lo sguardo pieno di innocente stupore sembrava domandargli perché. Pietro voleva fuggire da quegli occhi azzurri che lo tormentavano.
Nella cassapanca sul pianerottolo delle scale, sotto gli abiti invernali, le coperte e le trapunte che emanavano un acre odore di naftalina, c’era un vecchio fucile da caccia, forse di suo padre che se ne era andato in cerca di fortuna senza fare ritorno. Non lo aveva mai usato, ma nel corso degli anni se ne era preso cura caparbiamente e sapeva come fare.
Lo tolse dalla custodia e lo imbracciò con delicatezza come fosse un bambino. Era già carico.
Esitò.
In quell’istante, nella strada ancora deserta del mattino, sotto la finestra della sua camera, Tommy fermava il camioncino e lasciava la bottiglia del latte davanti alla porta, allineandola perfettamente sulla fila delle mattonelle rosse.