I: Seta di guerra di Pino Pace.

I. Primavera 1946.
SETA DI GUERRA

A un pilota polacco, e a Zamà che l’ha raccontata.
Ci vuole niente per fare felice una bambina.
Come quella bimba che esce dalla chiesa con il vestito bianco della prima comunione. Com’è felice stamattina. Eppure la madre veste di nero anche se è giovane; eppure la bambi- na, di notte, ancora trema e suda sul petto di quella madre, che ripete: “Non ci sarà più la guerra, piccina, non ci sarà più la guerra, te lo giuro.”
Ci vuole poco a fare felice una bambina, e un vestito di seta bianca è tanto, quando la fila per il pane è più fitta dei grani di un rosario. Ma cambierà, un giorno cambierà.
Dio com’è bella la vita quando non c’è la guerra. Sembra ovvio, ma non ci si stancherebbe mai a ripeterlo in silenzio, in segreto.
I morti si dimenticano, è crudele ma è così. Succede che una mattina, mentre cuci un vesti- to o lavi la biancheria, comici a canticchiare una canzone allegra, di quando avevi vent’anni. È ancora più facile dimenticare i morti quando non c’è più la guerra. Quella mamma non sa perché, è ancora giovane ma con gli anni ha imparato che non si può spiegare tutto.
Un rettangolo di seta bianca, seta di guerra, riposto in fondo a un cassetto, un po’ ingiallito e spiegazzato. Quella mamma vestita di nero l’ha ripreso solo qualche giorno prima della co- munione.
L’ha aperto e accarezzato. Era leggero, ispido e freddo, come i ricordi. Poi ha preso le forbici, un ago e del filo.

II. Inverno 1944.
Un rettangolo di seta bianca. L’aveva portato una mattina un uomo alto e biondo. Allora c’era la guerra. Era ancora buio fuori. I colpi contro il legno della porta avevano fatto tremare l’aria gelida
della casa, senza dare però nessun calore. La bambina dormiva. La donna si vestì in due veloci gesti mentre il marito scompariva nel buio. Allora non era vestita di nero.
Andò ad aprire. Un uomo stava di fronte alla porta, troppo alto e troppo biondo, in faccia aveva i segni della fame e del poco sonno, una giubba da pilota strappata, macchiata di fango. Non era un tedesco, poteva sembrarlo ma non lo era.
Anche il marito era sceso, con gli occhi gonfi, la camicia sbottonata e la roncola infilata nella cinta dei pantaloni, dietro la schiena. I due uomini si guardarono: occhi chiari contro oc- chi scuri, stesso sguardo di paura feroce.
L’uomo alto infilò la mano nella giubba, il marito fece scivolare la sua dietro la schiena. Dalla giubba uscì uno scampolo di stoffa bianca, il sole nuovo la ornava di mille sfumature.
La mano del marito lasciò il manico della roncola, si aprì e indicò il tavolo e la sedia. - Entra – disse. Pane, vino, un pezzo di formaggio giallo come sapone. Quello c’era e quello divisero.

III. Inverno 1944.
Quando toccò il suolo il paracadutista pensava alla sua terra liscia e dura, invece si ritrovò con la faccia in una terra scura e grassa.
Tagliò le cordicelle del paracadute, a grandi bracciate lo raccolse e scomparve tra i cespu- gli.
Non sapeva dove fosse. Era buio, sotto la luna la campagna era un brusio discreto, rotto da rumori secchi, improvvisi. Di una cosa era sicuro: era dietro le linee nemiche, era solo.
La paura gli infiammò la giubba come un fuoco. Quel silenzio lo atterriva, lui era un solda- to d’aria, gli mancava il frastuono dei motori. Gettò a terra la cuffia di cuoio, la pistola, le mappe, strappo dalla giubba i gradi e le mostrine. “Troppo alto, troppo biondo” pensò, ma ora non aveva importanza.
Con il coltello tagliò un rettangolo di tela del paracadute, non troppo grosso, che gli tenesse caldo e non lo ingombrasse e lo infilò nella giubba. Forse sarebbe riuscito a barattarlo con un piatto di minestra e della paglia per dormire. Buttò il resto in un dirupo e si allontanò nel buio.

IV. Inverno 1944.
Anche la bambina si alzò presto, quella mattina quando c’era la guerra. Era piccola allora. Entrò in cucina col passo veloce dei bambini infreddoliti, con gli occhi pieni di sonno. Andò a sedersi sulle ginocchia dell’uomo alto e biondo, si accucciò sul suo petto e si riaddormentò. L’aveva scambiato per suo padre.
I genitori rimasero gelati, ma non si mossero. Invece gli occhi chiari del soldato diventaro- no ancora più liquidi e brillanti. Accarezzava i capelli della bambina, sorrideva e annuiva, di- ceva qualche parola smozzicata toccandosi il petto, ansioso di essere compreso.
Anche lui ha una bambina, capiscono, e tira fuori una fotografia. Una bambina bionda, se- ria, dai grandi occhi chiari; perché le fotografie non si possono buttare via, anche quando val- gono la vita.
La giornata passò dietro le finestre accostate, e un’altra notte venne a inghiottirli.
Quella sarebbe stata l’ultima notte passata insieme. L’uomo e la donna non lo sapevano ma non riuscirono a dormire. Neanche l’uomo alto e biondo lo sapeva, nella penombra della cuci- na fumava una sigaretta. Aspirava avido, come se il fumo potesse scaldarlo, riempire ogni vuoto. Non è facile dire a cosa pensasse.
- Dobbiamo mandarlo via - disse la donna.
Il marito ci mise un po’ prima di rispondere: - Io mi nascondo e lui si nasconde, non fa dif- ferenza. Domani andremo via.

V. Inverno 1944.
Non era gente più cattiva di altra, anche se li puoi immaginare scuri in volto e in divisa, in una mattina che era ancora notte, un giorno freddo e torvo, senza niente di particolare ma che alcuni non avranno più la forza di raccontare.
Scesero dai camion, con sbaffi di calce sui cappotti scuri, di quando quei camion andavano per le strade, andavano per costruire; scesero con la baionetta alla cintura, che batteva sul cal- cio del fucile.
Nessuno sa se cercassero un uomo biondo o un uomo scuro. Non è importante, ora non più, è passato così tento tempo.
Erano saliti su un camion che era ancora buio, erano scesi vicino a quel casolare, avevano corso, gridato e li avevano presi. Come se fosse una cosa importante, come se si decidesse dei piccoli e dei grandi futuri. Tutti sapevano come sarebbe andata a finire, nessuno però poteva dirlo, se non sottovoce. Il patto era questo.
Presero due uomini invece di uno. Un pilota alleato, forse polacco, e un renitente alla leva. Due uomini e una sola parola: nemici.
In quell’alba che nessuno vuole più raccontare il crepitio dei fucili automatici azzittì la campagna. Una donna portò la mano alla bocca per non gridare, una bambina invece gridò.
Come sono ridicoli i cadaveri dei morti ammazzati per strada, un capriccio tra la forza ottu- sa di un proiettile, la molle resistenza di nervi, muscoli e ossa, la natura del terreno.
Avrebbero dovuto essere fieri o almeno soddisfatti quegli uomini nelle divise ruvide e scu- re. Eppure adesso erano ancora più cupi e stanchi; ai lati del sentiero tamponavano la fronte con i fazzoletti e rimettevano in spalla i fucili.
I corpi gettati sul cassone alzarono nuvolette bianche di calce, poi il nuvolone nero dello scappamento e quello grigio della polvere della strada.
La polvere si chetò e i cinguettii del mattino ripresero, dolci, indifferenti e crudeli.

VI. Primavera 1946.
“Com’è cresciuta adesso, com’è bella”, pensa la madre di fronte alla chiesa. E come riluce quel vestito di seta candida, un vestito da principessa, in mezzo ai vestitini buffi, messi insie- me rivoltando federe, chissà quante volte rivoltate.
Sorride come sorridono tutti in quella domenica, con le campane che rimbombano nel pet- to, con quei vestiti sempre più corti, sempre meno scuri, che tra un po’ sarà estate, che ieri al mercato c’erano le albicocche. Care come gemme, eppure non si vedevano da anni.
“La paura le passerà, tutto passa.”
Ci vuole poco a fare felice una bambina, anche rinunciando a un ricordo. Oppure non è ri- nunciare. I ricordi, quelli importanti, soffrono a stare nei cassetti, ingialliscono, si seccano, de- vono germogliare, fiorire e seminare ancora.
Perché quella mamma sta immaginando un giorno tra tanti anni. Venti o trenta anni, chi lo sa, quando una donna bionda busserà alla porta della sua bambina diventata anche lei donna. Allora non avrà più paura della guerra. Avranno più o meno la stessa età, si guarderanno senza timori: occhi chiari e occhi scuri. Sua figlia capirà subito chi è.
La inviterà ad entrare, la farà sedere e le offrirà un caffè, un’aranciata, quello che c’è. In una lingua strana o forse in americano la donna le domanderà di un uomo biondo e alto, di un pilota alleato, forse polacco. Oppure si capiranno a gesti, o forse parleranno tutt’e due ameri- cano, non è importante.
La mamma sa che al primo silenzio la figlia si alzerà e da un cassetto in fondo a un arma- dio prenderà un vestitino da bambina, bianco, leggero e ispido, di seta di guerra. Lo mostrerà a quella donna venuta da lontano e un po’ a gesti un po’ a parole le racconterà di una mattina di tanto tempo prima, di un uomo biondo e uno scuro, di quando c’era la guerra.